
Cos’è la diversità? Tendenzialmente la contrapposizione con la normalità, ma quando ci si riferisce ad esseri umani qual’è il criterio della definizione di normalità? Evidentemente se ci si riferisce ad aspetti esteriori la diversità può essere un carattere facilmente definibile se circoscriviamo il contesto e l’ambiente culturale. Una persona che camminasse per strada in Italia, vestita di solo “dobi”, tipicamente usato dalle tribù africane nei combattimenti, potrebbe essere definita diversa. Ugualmente si potrebbe dire di un europeo in giacca e cravatta nella foresta dell’Etiopia. Il problema nasce quando si parla di normalità e diversità a livello caratteriale, emozionale e spirituale, tutto quello che riguarda la sfera interiore dell’individuo, quella stessa sfera che viene manifestata e condivisa nelle relazioni interpersonali. Esiste un carattere normale? Esistono dei comportamenti normali? In un epoca ad esempio in cui l’estroversione è vista come carattere vincente, molti autori si sono occupati di dimostrare come l’introversione abbia altrettanti risvolti positivi ( vedi Susan Gain in “Quiet”), ma non ci sono solo queste due macrocategorie. Il mondo ad esempio è diviso tra persone che sanno cosa vogliono fare fin da piccoli e individui che cambiano spesso lavoro e sono alla continua ricerca di nuovi stimoli. Chi è normale? Dipende da dove ci si trova? Se ci limitiamo ad un’analisi sul territorio italiano si potrebbe dire che una persona che cambia spesso ambiente e contesto lavorativo è più consueta e quindi accettata come “normale” a Milano piuttosto che a Terlano (paesino dell’Alto Adige), ma anche questo non è poi così certo.

Io sono cresciuta in una famiglia dove mio padre ha iniziato a lavorare per una banca e ha terminato quarantacinque anni più tardi nella stessa, ha fatto una grande carriera, ha cambiato diverse mansioni, ma il contesto è rimasto sempre lo stesso. Mio fratello ha studiato ingegneria e ha fondato un’azienda di software, tutto regolare. Mia madre si è sempre occupata della casa, quindi anche lì nessuna “diversità” da imputare. Io, come racconto spesso, sono la strana, mi sono reinventata almeno un paio di volte e ho l’impressione che non quieterò ancora. È chiaro che rispetto a loro io sia la strana, la diversa, fin qui tutto bene. il problema nasce su come vivo io questa diversità, su come tutte le persone che agiscono differentemente dalla maggior parte del mondo riesca ad accettare la propria diversità come parte integrante del proprio io e non come un difetto di fabbrica.

Tengo molto a combattere il giudizio, che ritengo responsabile di tantissimi disagi interiori e, spesso, conseguenti malattie fisiche o mentali. Tengo altrettanto alla parola “ascolto”, intesa come comprensione dell’individuo che ci sta di fronte come essere unico e giusto. Spesso giudizi dati come sentenze determinano credenze che portiamo con noi tutta la vita, soprattutto se conferiti in età dove si sta creando la propria immagine personale. Ho già parlato dell’importanza dell’individuare i diversi talenti delle persone, sia dal punto di vista dell’utilità che da quello della gratificazione personale. In un bambino “diverso” lo stesso aspetto che lo distingue dagli altri bambini può essere esaltato come un talento del quale andare fiero e da poter mettere a servizio della società o come un grosso neo da coprire il prima possibile o addirittura asportare.
Un esempio pratico? Ho allenato fisicamente per molti anni un tennista professionista, aveva un carattere decisamente schivo e riservato, “diverso” dalla maggioranza dei suoi colleghi. Quando il match si faceva più duro, a differenza di molti, non si autoincoraggiava palesemente, non gridava, non aveva rituali eclatanti. Per molto tempo mi sono sentita dire:” Dovrebbe metterci più nervo, più cuore, più…sembra non gliene freghi nulla!”. Lo avessimo incoraggiato a cambiare forma espressiva lo avremmo obbligato a mettere attenzione a qualcosa di inutile e dispersivo che lo avrebbe allontanato dal match in termini di concentrazione, energia e, sicuramente, anche di risultato, lo avremmo costretto a non essere sè stesso. Lo hanno definito “freddo” parecchie volte, anche la stampa lo ha spesso criticato per questo, ma nessuno gli ha mai chiesto cosa provasse. Tutti si preoccupavano di cosa manifestasse, ma non di cosa sentisse dentro. Lui ci teneva, eccome se ci teneva, lo dimostrava solo in un modo diverso dagli altri. Oltretutto vinceva!

Cosa significa dunque essere diversi? Dovremmo definire cosa significa essere normali e, visto che risulta impossibile se si prende conto dell’unicità della persona e, aggiungerei, anche della sua complessità, la sola domanda che ci dovremmo porre è: “Diverso da chi? Diverso da cosa?” Credo che la risposta sia: “Sì, sono diverso, esattamente come lo sei tu da me”.
Lisa De Bernardini