
Ho lavorato per 25 anni nel mondo del tennis agonistico, molti dei quali a livello professionistico e la parola che più spesso ho sentito pronunciare è “talento”. Talento dell’avversario come giustificazione alla sconfitta, talento come deterrente nella scelta di chi convocare per qualche evento selettivo, talento nella capacità di eseguire gesti tecnici, talento come capacità di saper fare senza allenarsi. La maggior parte delle volte ho sentito nominare il talento come una capacità innata di fare qualcosa di pratico, quel quid che consentiva di raggiungere un risultato senza grosso sforzo. Spesso chi era dotato di grande perseveranza e resilienza era visto come colui che, poverino, ce la metteva tutta anche se non era talentuoso.
Naturalmente la lettura del talento era molto diversa a seconda degli occhi che leggevano la situazione. Il genitore vedeva il talento nel gesto sporadico, il tifoso nel colpo, uscito dal cilindro magico, capace di infiammare la folla per la sua bellezza. L’allenatore vedeva il talento nella velocità di apprendimento, il tecnico spesso anche nella capacità di lettura della situazione. Tanti talenti, una sola persona. Tante persone, tanti talenti.
Se si parla di raggiungimento di un risultato specifico credo che i talenti necessari siano svariati, non credo ci sia una classifica del talento più importante. Conoscere gli strumenti per raggiungere il risultato, saperli applicare, decidere quando e come, accettare il fallimento, ricominciare dopo un tentativo mal riuscito, ripetere e restare ordinati, … sono tutti talenti molto importanti a mio avviso.

Ho sempre ritenuto che uno dei compiti principali della scuola, a partire dalla più tenera età, sia quello di valorizzare i talenti individuali, consentendone la sperimentazione negli anni di giovane età per una presa di consapevolezza e un’eventuale lavoro sul miglioramento dei punti deboli.
La diatriba se sia meglio valorizzare i punti forti o colmare i punti deboli non è mai stata risolta, anche perchè non avremo mai una risposta esauriente, per qualcuno va bene la prima opzione e per altri la seconda. Ma qual’è l’obiettivo?
Ma il talento è una diversità? O è qualcosa che ci accomuna anche se con connotazioni non tutte uguali?
Spesso guardiamo come “marziani” le persone che hanno avuto molto successo nella loro vita o hanno compiuto imprese straordinarie. Crediamo che siano state dotate di un talento soprannaturale che le rende così diverse da noi da non immaginare nemmeno lontanamente di poterle emulare.

Gli scenari accanto al talento sono molti, dalla pressione subita da chi viene additato come talentuoso, alla convinzione di essere incapace di chi prova a fare la stessa cosa senza risultato. Molte emozioni e conseguenti reazioni, molte scelte dietro ad una convinzione, molta discriminazione in ogni caso.
La realtà è che ognuno di noi nasce con uno o più talenti, nessuno escluso, ma non tutti arriviamo a conoscerli e ad utilizzarli, finendo per, spesso, rimanere frustrati dalla sensazione di non riuscire a distinguerci. Il talento quindi non è diversità, ma unicità, specialità, dote, qualità, capacità. Nostra responsabilità è prenderne consapevolezza.

Il termine “talento”, a parte essere unità di misura e moneta dell’antica Grecia, è addotto alla parabola in cui Gesù affida dei doni ai suoi discepoli. Possiamo pensare quindi che il talento sia un dono, e come tale sia estremamente personale. Il talento in questo caso è sinonimo di diversità in quanto ognuno ha un talento diverso. Essendo che molti talenti si assomigliano in quanto il loro utilizzo consente il raggiungimento di determinati risultati, potremmo anche asserire che il talento è sinonimo di possibilità di riuscita e, come tale, accomuna persone simili.

Io, da allenatore, insegnante, madre e essere umano, credo fermamente che ognuno nasca con uno o più talenti e che una delle missioni della vita sia prenderne coscienza e metterli a servizio dell’umanità. I talenti hanno colori diversi e possono essere usati per compiere imprese singole o applicati alla quotidianità per migliorare la qualità della vita personale ed altrui. La disciplina di un atleta che si allena tutti i giorni con la stessa determinazione può essere paragonata alla resilienza di un genitore che si sveglia tutte le mattine per preparare una colazione sana ai propri figli, alla capacità di andare a lavorare tutti i giorni con concentrazione e attenzione, alla meticolosa preparazione di un intervento chirurgico per un medico o alla precisa valutazione quotidiana del contadino che si prende cura dei propri terreni che vuole fare fruttificare.

Chi è in grado di dipingere un paesaggio con estrema facilità può essere paragonato a chi scrive una poesia che arriva nel profondo, ad un fotografo che riesce ad immortalare un’emozione, un danzatore che parla col proprio corpo o uno scultore che racconta attraverso un pezzo di legno. Li accomuna una forte sensibilità, li distingue la loro forma di espressione. Simili, diversissimi, unici.
Potremmo andare avanti all’infinito perché il talento, inteso come dono, non è altro che uno dei nostri colori, quello che tende a brillare al buio e a cui possiamo fare affidamento nei momenti di difficoltà perché ci viene naturale, non ci costa fatica.
Nessun risultato viene da diversità, tutti arrivano da specialità, tutti arrivano da talenti bene espressi, ascoltati e onorati.

Qualunque sia il tuo talento prendine cura, sarà ciò che userai quando sarai stanco e senza forze, quello che in assenza di armi userai per coprire i buchi, quello che ti farà sentire libero e speciale, quello che ti consentirà di sentirti unico ed irripetibile.
Lisa De Bernardini